Il 28 ottobre ha aperto al Mudec di Milano la mostra dedicata a Jean-Michel Basquiat. La mostra sarà visitabile fino al 26 Febbraio 2017. Qui un mio pARTicolare ad omaggiare questo artista, misterioso, profondo e complesso. 

Abbi il coraggio

Di essere te stesso.

Una personalità, mille personalità. Qualche anno fa ho visitato, alla Galleria Carla Sozzani di Milano, la mostra del fotografo Christopher Makos (Lowell, 1948), che negli anni Settanta e Ottanta realizzò diversi ritratti agli artisti della Factory Warholiana.

Vi è irriverenza, ironia, follia, degenerazione e rigenerazione. Il focus è Andy Warhol, ritratto in diverse vesti e sguardi, trucchi e parrucche, occhiali e segnali. Mille personalità, sempre in quello sguardo magnetico. Un omaggio all’alter ego di Marcel Duchamp, della sua Rose Selavy, la sua altra personalità femminile, estatica ed eterea. Perché la Factory oltre che Pop era anche Dada. Nel senso di distruzione, mancanza di controllo, mancanza di regole. Arte che si alimenta di se stessa. Arte di un’epoca, di una società di consumo e pura follia. Di libertà e di mille possibilità del Sé. E Andy Warhol lo vediamo così. Nel rossetto scuro, nelle parrucche bianche e lunghe. Posa frontale o leggermente di profilo. Labbra semiaperte. Sguardo incorniciato da mascara languido.  O il suo volto nascosto da una macchina fotografica. O la sua testa all’ingiù. Parrucche e parrucche che trasformano e nascondono un’identità. Trucco disegnato. Pelle bianca. Braccia magrissime. Gambe lunghe. Occhiali da sole, talvolta, a nascondere un mondo di espressività.
Qualche ritratto a fianco di artisti famosi come Dalì, John Lennon, Liza Minelli.
Confusione. Ma un pARTicolare, come sempre, arriva. 

Christopher Makos, Jean Michel Basquiat, Maggio 1984 

Tutti, sono ritratti come essenza e specchio della Factory. Tutti gli artisti nel loro atteggiamento un po’ irriverente, sopra le righe, drogato di libertà e di gioia.

Tutti tranne uno.

Jean-Michel Basquiat.

Christopher Makos afferma, intervistato da La Repubblica (11 giugno 2014): «Basquiat si arrabbiò molto per la foto. Il mappamondo è girato in modo che si veda l’Africa ma lui non si considerava un artista afroamericano, si considerava un artista e basta».

Jean-Michel Basquiat. Non mille personalità, solo una. Quella che basta.

Capelli afro, corti ma non troppo. Una camicia abbottonata, color ocra. Le maniche un po’ arrotolate sui gomiti. Un paio di occhiali da sole sul taschino  destro della camicia. Abbandonati lì, per scoprire gli occhi dell’espressività più profonda.

Mi fermo a guardarlo.
Lo sguardo, in effetti, è complesso. Non esprime solo un’emozione.

Vi è una leggerissima ironia. Una tristezza lontana. Una serietà invadente. Un fastidio sottointeso.

E quel volto, quel volto triangolare.

La forma del volto è la stessa del continente africano. L’Africa, il peso di quel continente tenuto su una spalla. L’Africa il soggetto ripreso, su quel mappamondo. E l’Africa ha la geometria del suo volto. Un triangolo al contrario, gli  zigomi scoscesi. Le macchie di una pelle imperfetta, le macchie dei tanti stati di un continente immenso. E la forma, dell’Africa, come una danza. Quando il corpo si muove, una linea serpentinata, un flusso di energia. Così Basquiat, con il suo corpo magrissimo e sinuoso, una linea curva e alta.

E quegli occhi. Mille sentimenti in una sola personalità. Pulita. Chiara. Senza la maschera irriverente dell’Arte Pop e Dada. Solo lui e la sua anima. E la sua terra.

Un artista e basta, si sentiva.

Il resto, solo un gioco di mille identità.  

Scritto per MIfacciodiCultura – Artspecialday.com  

 

 

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