Domenica 27 Novembre ho guidato un gruppo alla mostra di Jean-Michel Basquiat al Mudec di Milano. Alla fine della giornata la mia amica e fotografa Chiara Del Sordo mi ha inviato gli scatti che ha realizzato durante l’introduzione al percorso. All’interno dell’esposizione non si può fotografare, quindi Chiara ha scrutato con il suo sguardo curioso i momenti prima del viaggio nel mondo di questo giovane artista, simbolo della Street Art, degli anni Ottanta in America, della cultura Afroamericana.

Questo scatto mi ha colpito in modo particolare.

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Mudec, Mostra di Jean-Michel Basquiat – Fotografia di Chiara Del Sordo  

I minuti prima di una visita sono pieni di pensieri. Come attutiti dal cuore. Ed ogni volta è come la prima volta, ogni esperienza è nuova, autentica, imprevedibile. Chiara ha ritratto me e il mio gruppo che saliamo le scale e ci dirigiamo verso il primo piano del Mudec, verso quella luce avvolgente dell’Agorà, dove si accolgono i visitatori e ci si sente abbracciati dalle onde contemporanee dell’architetto David Chipperfield.
Io ho il capo reclinato. Sono l’unica, in effetti.
Sul mio capo, si appoggiano i pensieri.
Su quella scala, in quei minuti prima di parlare, il pensiero fisso non è la mostra, non è la didattica.  In quei secondi l’unica cosa che si muove è il desiderio. E una sola vera preoccupazione: essere capace di condividere tutto ciò che si prova.

L’amore che provo per Jean-Michel Basquiat, a momenti, in questi mesi, mi ha sommersa. Mi ha talvolta bloccata. Ho sognato di notte le sue opere. Ho sofferto osservando e studiando le sue interviste. Ho sentito questo ragazzo a me così dannatamente vicino da spaventarmi.
Quella scala e questo scatto rappresentano per me il respiro prima di partire, il pensiero dell’Amore. Il coraggio di raccontarlo.

Jean-Michel Basquait. Nato nel 1960 a New York, Brooklyn, morto a 27 anni nel 1988 per overdose. Madre portoricana, padre haitiano, famiglia piccolo borghese.
Ragazzo troppo vivo, troppo intelligente, troppo. Jean-Michel Basquiat era troppo, in tutto. Inizia come artista di strada. La Street Art nasce da lui, tutte le contraddizioni di questa arte nascono da lui, dalla sua vita. Dal suo sangue dolorante. Dai suoi simboli impennanti: la corona, le automobili, la griglia disegnata sulla strada, le ambulanze, le onomatopee, l’anatomia umana, le frasi di poesie e canzoni, i nomi di artisti afroamericani, la casa con una S dentro (Street? O Susan, una sua fidanzata che nel libro Widow Basquiat (2000) racconta che era lei, la sua casa. Così, lui, le diceva). Il mio percorso, per raccontarlo, si è districato facendo perno su alcune parole chiave: autoritratto, simboli, lettura d’opera, donna, ritratti d’artista, anatomia e politica.

Jean-Michel Basquait mi ricorda Jack Kerouac.

Questa idea di gioventù che brucia, sfavilla, soffre. Che sembra vivere senza aver paura delle conseguenze.
Sembra. Ma la paura poi arriva. C’è. Ristagna. E allora meglio evadere. Evadere da quello che ti chiedono di essere, dal pensiero del dolore. E allora è meglio scrivere, scrivere, scrivere. Frasi, citazioni, pensieri, timori. Senza virgole, senza regole. Tutto ciò che si memorizza merita di essere raccontato. Ma solo nelle opere. Basquiat infatti ha sempre odiato dover spiegare, doversi spiegare. Non ha scritto di sé, e neanche delle sue opere. Nelle interviste si sentiva in imbarazzo, come in gabbia. Era continuamente diviso fra ciò che lui voleva essere e ciò che la società bianca, ricca, del mercato dell’arte, gli chiedeva di essere. Ed era diviso fra vita e teatralità, tra essere e recitare, tra reale e surreale.

Amava raccontare la verità africana. Ma non come lo fece Picasso, o prima di lui gli artisti del romanticismo francese. Per lui l’esotismo non aveva nulla di romantico. E neanche di innovativo. Per Basquiat non era innovativo, come accade nelle Demoiselles d’Avignon (1907) di Pablo Picasso, porre delle maschere su donne ambientate nel più vecchio e noioso dei soggetti mai rappresentati: Il boudoir. E soprattutto un’opera come Les Demoiselles D’Avignon di Picasso non raccontava la realtà della cultura africana, che lui sentiva nelle vene, nella pelle nera che non accettava, che avrebbe voluto strapparsi via. Una cultura immersa in quegli occhi che “mangiavano” la realtà intorno fino a “risputarla fuori” in maniera così violenta, arrabbiata, dolorosa e tremendamente sincera.
E allora Basquiat per raccontare la cultura afroamericana di cui si sentiva messaggero, realizza opere come Yellow Tar and Feathers (1982), dove racconta una delle pratiche di umiliazione riservata ai neri: essere ricoperti di catrame e poi di piume bianche per poi iniziare a seviziarli. Un’opera completamente gialla. Questo giallo che ritorna.
No. Jean- Michel non ha paura di raccontare questo. E lo fa su un’opera di dimensioni anche molto grandi. E i bianchi ricchi, la compravano. La volevano.
E Jean-Michel si rappresenta anche con una corona… La corona è spesso presente nelle sue opere, simbolo di potere della cultura nera. L’artista racconta le stelle della cultura nera, i grandi afroamericani che erano riusciti ad affermarsi. Nella società apparente, ma non nella quotidianità. Perché Michael Jordan era il più grande campione di Basket negli anni Ottanta, ma non gli era consigliato di frequentare gli stessi locali e gli stessi Hotel dei suoi compagni di squadra bianchi. Micheal Jacskon negli anni Ottanta diventa il re del pop con il suo primo album solista, Off the Wall (1979). Ma la televisione non voleva passare i suoi video. Un afroamericano re del pop? Che continui a fare musica nella Motown. Che faccia il blues, la musica dei neri. Non poteva essere una icona pop.
Non poteva esserlo. E lo è diventato.

Jean-Michel Basquiat non è generalmente ben accolto.
Perché la sua arte ci disturba. Ci racconta ancora adesso quanto siamo infimi, poveri di spirito, impauriti dal diverso. Quanto non riusciamo a convivere tra noi. Quanto non riusciamo a arricchirci delle nostre differenze. Quanto ancora ci giudichiamo per la pelle nera, per un accento diverso, per la pelle albina, per una disabilità, per un orientamento sessuale, per una gonna troppo corta.

“Era l’unica persona di cui io sia stata invidiosa. Per il suo talento. Ma aveva un’anima troppo fragile per affrontare questo mondo”.

Questo racconta di Basquiat Madonna, che ebbe una storia con lui.
Fragile sì. Ma pensate un po’ l’ironia.
In trent’anni in America, e anche nel resto del mondo, è cambiato pochissimo di quel razzismo narrato nelle opere di Basquiat.
Fragile. Ma Basquiat fa ancora paura.
Le sue opere sono disturbanti. Nocive per la nostra tranquillità. Strazianti, se le guardi nel profondo. Strazianti, se pensi che tutto questo dolore ha avuto il coraggio di raccontarlo un ragazzo giovanissimo. Troppo giovane. Troppo famoso, troppo ricco, troppo sensibile, troppo reale. E Basquiat, anche quando è entrato nel mondo delle gallerie, non si è uniformato. Ha mantenuto il suo stile, la sua arte di strada, i suoi materiali di supporto poveri e sperimentali. Basquiat ha continuato, nell’arte, a essere solo se stesso. Non un artista nero, non un artista africano, ma “un artista e basta”, come voleva essere definito lui.

Non riusciva a fermare un taxi, Basquiat. Neanche da star dell’arte. Perché era nero.
E quel giallo – il colore del taxi, il colore forse più presente nelle sue opere – quel desiderio impossibile, l’hanno risucchiato.
Quei contrasti sociali e quotidiani, quel conflitto, non è riuscito a reggerli.
Nonostante il suo racconto, la società l’ha inghiottito.
Ma le sue opere sono ancora testimonianza presente. Viva, vivissima. Una denuncia sociale che dovremmo avere il coraggio di affrontare.
Ma noi, il suo coraggio, non lo abbiamo.

Non so se sono riuscita a farlo. A dire il mio Amore. Credo di sì.
So solo che all’ultima opera la mia voce si piega. Le lacrime irrompono.
E la verità più reale di me si espone. Come un uragano.
Ci sono artisti che ti insegnano la cosa più preziosa di tutte: a non avere paura di mostrarti reale.

Jean-Michel Basquiat mi ha insegnato il coraggio estremo, talvolta scomodo, della verità.

Grazie. E alla prossima! 🙂

Fede 

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Mudec, Fotografia di Chiara del Sordo 

Mudec. Mostra di Jean-Michel Basquiat. Fotografia di Chiara Del Sordo.

Mudec, Fotografia di Chiara del Sordo 

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Mudec, Fotografia di Chiara del Sordo  

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Mudec, Fotografia di Chiara del Sordo  

Federica Maria Marrella

Classe 1986. PhD in Comunicazione e Nuove Tecnologie. Il mio lavoro di ricerca si concentra sull’Iconografia Femminile nella Fotografia di Moda Contemporanea. Storica dell’Arte, Educatrice Museale. Docente di Storia dell’Arte. Scrittrice. Curiosa osservatrice. Amante della Poesia e della Musica. Costruttrice attenta e costante di Piccoli Sogni.

Comments (3)

  1. Ciao federica, sono venuta pochi giorni fa alla mostra di basquiat con la mia classe, quinta linguistico di Merate. Innanzitutto siamo rimaste tutte molto colpite dalla tua spiegazione veramente molto emozionante e travolgente, quindi vorrei ringraziarti. Inoltre volevo chiederti secondo te come potrei collegare basquiat con altre materie per la tesina di maturità, visto che mi ha colpito molto e mi piacerebbe farla su di lei. Grazie mille in anticipo 🙂

    1. Cara Anna, Grazie delle tue parole! Sono molto felice che la mia visita guidata vi abbia appassionate. 🙂 Per quanto riguarda i consigli per la tua tesina di maturità, scrivimi una e-mail a federicamariamarrella@gmail.com. Ci aggiorniamo lì così magari ti darò anche il mio numero di telefono e possiamo parlarne con calma. Intanto ti abbraccio! Salutami la tua classe e buono studio! Federica

  2. Lui*

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