Quel film, L’Avventura, termina così. Quel fotogramma, intendo, spiega più di mille parole.

Vittoria e Sandro sono ripresi di spalle. Di fronte, la natura, e una struttura architettonica.  

Non a caso, di fronte a Vittoria, la natura, l’Etna vivo e imprevedibile.

Di fronte a Sandro, un muro. La chiusura di sentimenti. La coscienza assente di esser traditore. La solitudine dell’orgoglio e della libertà pretesa con violenza.

La donna, natura. L’uomo, il futuro meccanico.

Questi, gli anni del Boom economico.  E di una ritrovata essenza.

Scomoderò anche questa volta il cinema, per parlare di un grandissimo fotografo, Ugo Mulas (1928 – 1973). Ugo Mulas nasce come artista a Milano, al bar Giamaica in zona Brera. Conosce tutti i creatori del tempo, tra cui Piero Manzoni, e ama fotografare le opere di artisti come Alexander Calder, Alberto Giacometti, Robert Rauschenberg, Alberto Burri e Andy Warhol.  Periodo, quello del Dopoguerra, pieno di nuove idee, nuova arte. E nuovi sentimenti. Ugo Mulas sarà anche fotografo di moda, e proprio dagli anni Cinquanta agli anni Sessanta realizza opere meravigliose per le vie delle città. Da Milano a Roma.  Nella fotografia di moda è conosciuto soprattutto per i suoi tratti essenziali, chiari. E per la sua preferenza per il bianco e nero, che egli trova più “sincero, perché la coscienza da parte dell’osservatore che sia un’immagine  astratta e irreale ne fa accettare più facilmente il risultato.”   [Da Italian Fashion Eyes, 2004]  

Mi ha colpito in pARTicolare uno scatto realizzato a Roma nel 1962. Siamo negli anni Sessanta, gli anni della Dolce Vita felliniana (1960). E gli anni della trilogia dell’incomunicabilità di Michelangelo Antonioni (l’Avventura 1960, La Notte 1961, L’Eclisse 1962). Gli scatti in questione sono realizzati nella città eterna, ma lo spirito che si legge, l’aria, il non detto, ricorda la nudità milanese, la semplicità della città industriale del Dopoguerra. O, al massimo, il quartiere dell’Eur, con la sua freddezza e distanza raccontato proprio da Michelangelo Antonioni ne L’Eclisse.

Credo che Cinema e Fotografia,  negli anni Sessanta, siano stati completamente stretti e uniti da filosofia e atmosfere. Da pensieri e cambiamenti. Stravolgimenti sociali che attanagliavano gli artisti, ma prima di tutto, le persone. Perché gli artisti sono solo persone più sensibili, che forse prefigurano e esprimono un cambiamento sommesso e vivo nel loro tempo.

Qui, in questo scatto, Rome 1962, siamo a Roma. Ritratta, una coppia. Ma non la Roma della Dolce Vita. Non c’è vitalità, non vi sono strade, non vi è la concreta e straziante novità del sogno.

Qui c’è Roma. La città della Grande Bellezza, della possanza.
Ma non raccontata dagli occhi sognatori di Fellini, né dagli occhi popolari e drammatici di Visconti, quando in Rocco e i suoi fratelli ha descritto una Milano nuova e terribile. No. Qui c’è la Roma nei dettagli. Fredda. Distante. Assente. E un silenzio tra i protagonisti che ricorda proprio la trilogia di Antonioni, realizzata proprio in quegli anni, dal 1960 al 1963.

Storie di amori che finiscono, di passeggiate solitarie per vie della città, di mura fredde, di dialoghi spenti, di sguardi veloci. Di musica finta, di parole eterne. Di tradimenti, di mascolinità perduta, di femminilità che si ritrova e si riconosce. Di ruoli nuovi, in tempi ancora vecchi. Di anni che corrono, e regole ancora ferree. E quindi di scontri, di amori incompresi e terminati, di amori rimpianti e mai dimenticati. Di cassette registrate per imprimerci i pensieri. Di follia e intimità. Di paure improvvise e nuovi desideri. 

Qui, una colonna. La colonna è dietro, la nostra coppia, in realtà sembra un masso possente sul loro capo. Ciò che vive la coppia è fuori dal nostro sguardo. Tutto quello che accade, non accade per noi, ma solo per loro. Non comunicano. Distanti, fissi e ieratici proprio come la colonna dietro di loro. Guardano di fronte. Le labbra socchiuse di sorpresa. Gli occhi in alto. Eleganza e freddo. Nella città del caldo tempo e dell’eterno che ritorna, per eccellenza.

C’è distanza, incomprensione. Non solo tra i protagonisti. Ma tra i protagonisti e il contesto. E tra il contesto e lo spettatore.

Come la passeggiata tra le colonne del Bernini. Uomo e donna freddi e distanti. L’uomo fotografa. Si distacca dalla realtà, per diventare lui stesso ripresa esterna del vero. Lontananza dalla contingenza che non si riconosce più.

I ruoli mutano. L’arte, la fotografia il cinema dialogano. E tutto torna, se osserviamo. Tornano i mutamenti di quegli anni, così profondi e sconvolgenti. Nel tratto freddo e appassionato degli occhi di un fotografo. Semplice testimone di una realtà a lui quotidiana e ormai profondamente riconosciuta.

La donna, natura. L’uomo, il futuro meccanico.

Questi, gli anni del Boom economico. Di trasformazioni eterne e profonde.

Anche nella città del calore e della grande bellezza.

Le colonne giganti diventano bidimensionali e lontane.

I protagonisti, l’umanità. 

 

 Scritto per MIfacciodiCultura – Artspecialday.com 

 

 

 

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