Una partita di tennis di un gruppo di mimi. In silenzio.
Senza racchette. Senza pallina.
Giocatori mimano una partita. Un pubblico, sempre di mimi, osserva l’evento. Silente.
Tutto in silenzio.
In quel parco dove il mistero dell’immagine è avvenuto. E l’arte non è più reale.
Arriva un’arte dada. Una performance dada.
E la fotografia perde il suo realismo.
Tutto è finto nella perfezione.

Blow Up. Michelangelo Antonioni, 1966.
La moda come mito. Il fotografo come un dio.
Lo swinging london. La realtà che rincorre l’illusione, il ruolo della fotografia di riprodurre il reale.
Il pensiero che ingrandendo (Blow Up significa ingrandimento) le cose diventino più chiare.
Invece si ben sa che solo una visione ampia e complessa può dare qualche piccola risposta.
Blow Up è un film che racconta la moda degli anni fine Sessanta. Film che descrive l’incapacità di comunicare e comunicarsi. E l’idolatria dei fotografi di quegli anni come David Bailey, fotografo a cui si ispira il protagonista Thomas (David Hammings).

La moda che è anche mutismo delle modelle. Corpi acerbi e incoscienti. Da un lato. Dall’altro invece, la celebre sensualissima scena di Thomas che fotografa la modella Verushka. Un atto sessuale, dal quale entrambi escono sfiniti.

La macchina fotografica come protesi del sé. Come unico elemento di visione della realtà. Che, al di fuori dell’obiettivo, diventa altra.
Momenti di caos e momenti di profondo silenzio, in questo film. Continui contrasti implacabili.
Michelangelo Antonioni racconta un giallo, come ne L’Avventura (1960). Un giallo in cui la trama alla fine non è più neanche importante, è solo un tramite per scavare nell’intimità dell’umano. E delle più profonde domande, nella superficie estrema rappresentata dai colori sgargianti del Fashion di quegli anni.
Cosa è realtà o finzione?
Cosa è l’amore vero? Cosa è il sesso. L’inquietudine. La droga.
Cosa è l’arte? Può salvare? O diventa solo una magnifica ossessione?
Tutto questo pieno avviene nel film. Domande, corse, vita sregolata del protagonista che si rispecchia nel dipinto informale del suo migliore amico.
Alla fine invece, in quel parco, il silenzio.
Il parco che rimanda al finale de La Notte (1963). In quel film sempre di Antonioni, in un parco, finiva un amore. In un abbraccio silenzioso. La macchina da presa si allontanava dai due amanti. (Jeanne Moureau e Marcello Mastroianni).
Qui, il finale è ancora più estremo e totale. La macchina da presa si allontana dal protagonista. Che riprende la sua macchina fotografica. Forse cosciente del mistero della sua arte.
In quella partita a ping-pong.
In quel parco che non ha saputo dire la verità.

Eppure qualcosa avviene. Thomas prende la pallina. La rilancia.
E tutto ad un tratto la sentiamo. La pallina la sentiamo.
Tic – tic – tic.
Sentiamo solo lei.
Nel gioco del mimare la vita, l’illusione è rimasta attaccata a una fotografia.
Thomas sorride. Ha ceduto alla sua ricerca estrema dell’alterità.
Ingrandendo, è rimasta solo la finzione.

Scritto per MIfacciodiCultura – Artspecialday.com 

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