Mercoledì 4 gennaio ho guidato un gruppo alla Pinacoteca di Brera di Milano. Il mio racconto qui pARTicolare del primo dialogo di arte organizzato l’anno scorso nel museo, tra Perugino e Raffaello. 

Il 14 marzo 2016, alle ore 11.00, ho partecipato alla conferenza stampa dedicata a un grande evento, conferenza che si è svolta nella Sala della Passione della Pinacoteca di Brera. Nel museo milanese,  sono stati avvicinati due grandi capolavori: i due Sposalizi della Vergine di Perugino e Raffaello. Maestro e allievo intrecciati in un dialogo silenzioso ed eterno, delicato ed amoroso, fino al 27 giugno. Il nuovo direttore della Pinacoteca, James M. Bradburne, ha esposto inoltre le novità del museo: nuove installazioni e nuove descrizioni letterarie dei più grandi capolavori, nuovi percorsi focalizzati su opere particolari, maggiore attenzione al fruitore e alla sua accoglienza, e il nuovo sito della Pinacoteca.

Tutto, raccontato con un entusiasmo contagioso. Dalle sue parole emerge un lavoro di squadra, poderoso e determinato.  Il programma della conferenza ha previsto inoltre, in chiusura, un piccolo concerto del pianista Clive Britton in una delle sali più grandi del museo che accoglie La predica di San Marco ad Alessandria d’Egitto di Gentile e Giovanni Bellini: la sala VIII.

Il mio pARTicolare, qui, dedicato alle due opere affiancate.
Un momento di luce ed emozione inesauribile.

A sinistra, lo Sposalizio della Vergine realizzato dal Perugino tra il 1500 e il 1504. L’opera del Perugino è abbracciata da una luce lunare. Mistica.
Il racconto è vicino, i personaggi sono grandi e vivi.
 Ma le pose sono ancora danzanti e cortesi, in ricordo dell’arte del gotico internazionale.
Le figure del Perugino sono lontane da quella possanza e concretezza umana creata dal Masaccio a Firenze.
Le figure del Perugino vivono di una vita propria ed eterna, lineare ed elegante.
Una lontananza ascetica.
Un racconto lieve e detto sottovoce.
A destra, Maria e le donne. A sinistra, Giuseppe e gli uomini.
Si racconta, nei Vangeli Apocrifi, che Maria fosse vissuta in modo quasi monacale. Raggiunta la giovane età da marito, si decise che in un gruppo di pretendenti, chi avesse avuto il rametto fiorito, sarebbe stato il suo futuro sposo. L’uomo prescelto fu Giuseppe.
Gli altri giovani sono infastiditi e rattristati. Sia nel dipinto di Perugino che in quello di Raffaello riconosciamo un ragazzo che, deluso, spezza il suo rametto con la gamba. Entrambi i personaggi sono danzanti, eleganti. Leggiadri nelle loro pose. Non vi è nessuna forza creata nel distruggere quel rametto.
Eppure il dipinto di Raffaello ha qualcosa di diverso. Di misteriosamente vivo.
Eccolo, lo Sposalizio della Vergine di Raffaello Sanzio, sulla destra. Dipinto nel 1504

 Come a specchio con l’opera del suo maestro, a destra gli uomini, a sinistra le donne.
Le pose sono sempre leggere, eleganti, danzanti. Le gambe e le braccia magre e delicate. Col tempo, questi corpi nelle opere di Raffaello scompariranno sempre di più, fino ad arrivare alla sua Rivoluzione: L’incendio di Borgo (1514) nella Stanza dell’Incendio di Borgo nei Musei Vaticani. Quella forza di corpi Raffaello, infatti, la conobbe a Roma, quando lavorò alle Stanze Vaticane (1509 – 1520 ca.) e lì vicino, proprio lì vicino, visitò spesso, ammirato, la volta della Cappella Sistina dipinta da Michelangelo Buonarroti (tra il 1508  e il 1512).
Qui in questo delicato dipinto, invece, la lezione del Perugino è ancora viva e presente. C’è chi afferma che nelle opere di Raffaello via sia la cosiddetta Grazia, che è quel Je ne sais quoi, quel Non so che. Chi lo chiama Soffio di Vita. Chi Perfezione immanente. Chi, come afferma Ernst H. Gombrich, la capacità di creare “capolavori quasi del tutto autosufficienti”, come la  futura Madonna della Seggiola (1514). Le opere di Raffaello esprimono semplicità, nonostante la loro estrema complessità di composizione.
Il pianista Clive Britton, prima di suonare, afferma:

– Il dipinto di Raffaello porta lo spettatore verso l’alto.
Così come fa la musica. –

È proprio qui, il pARTicolare.
Raffaello supera il maestro, non tanto nel soffio di vita, che è suo talento e dono naturale, ma in un altro dettaglio di lavoro estremo e potentissimo: il secondo piano del dipinto. 

Di fronte all’opera di Perugino ci sentiamo sullo stesso piano della rappresentazione, sentiamo come di poter camminare in uno spazio unico e orizzontale. E soprattutto, sentiamo il quadro che viene verso di noi. Non siamo noi a doverci muovere, a dover faticare e non siamo pungolati e stimolati ad avvicinarci. L’atteggiamento nostro è di posa e rilassatezza. Di stasi e equilibrio. Di pace e contemplazione.
Di fronte all’opera di Raffaello, invece, il nostro corpo e il nostro animo sentono di dover alzarsi, librarsi al cielo. Andare oltre. Svilupparsi in verticale.
Perché Raffaello, dietro la scena principale, racconta un altro mondo: quello dell’Umanesimo e del primo Rinascimento Italiano.
Il mondo della prospettiva perfetta, geometrica, matematica. Il mondo della bellezza surreale e aurorale. Il mondo del pensiero, dell’uomo al centro dell’universo e della religione profonda. Mai bisogna affermare che il Rinascimento sia stata epoca eretica. Anzi. Nel Rinascimento il pensiero laico era strettamente legato a quello spirituale, religioso e filosofico. Si pensava all’unione con il mondo altro, il mondo delle Idee neoplatoniche, il mondo dell’Aldilà attraverso la ricerca spasmodica di cultura, lettura, pensiero e analisi, e conoscenza, e studio del mondo reale e concreto.
Raffaello racconta tutto questo. In quel pavimento di quadroni che piano, piano, piano si rimpiccioliscano. In quella scalinata che porta verso l’alto, in quel tempio elegante, perfetto, simmetrico e nella sua leggerezza di colonne, presente e onnipresente nella raffigurazione.
Raffaello pretende e chiede, all’occhio dello spettatore e tramite esso all’animo umano, di andare oltre, di seguire l’infinito. Di cercare la verità suprema, la bellezza.
La conoscenza. Che è salita e vigore, nessuna paura del vuoto e dell’introspezione.
Nessun sentimento di stasi e compiacimento del sé.
Costruzione prospettica e un cielo, in quella porta lontana, che vuole ammirare l’Idea della Ricerca. La fiducia nell’Uomo e nella sua costruzione del Tempio della quotidianità, nel racconto spirituale dell’inizio e della promessa di un amore.

Sala VIII.
Il pianista ha paura di tremar troppo, ché deve suonare al fianco di grandi capolavori.
Eppure lo fa.
Si siede, su quel miracolo di pianoforte nero. A coda lunga e liscia.
Una scia di mare che riflette i dipinti intorno.
La musica di Liszt si propaga in ogni stanza, in ogni angolo, tra le linee delle mura.
La musica pretende dall’uomo che la sua anima voli.
E vola.
Nel tema di un anello.
Nel ritratto della promessa di un amore. 

Scritto per MIfacciodiCultura – Artspecialday.com 

 

 

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