La mostra al Mudec di Milano dedicata a Vasilij Kandinskij è una mostra meravigliosa per un preciso motivo: ci racconta un percorso, un divenire. Ci racconta una storia: la formazione di un artista nato in Russia, ma viaggiatore instancabile d’Europa.
Il nome di Kandiskij è così famoso che le esposizioni a lui dedicate sono diventate ormai innumerevoli. Perché i suoi dipinti sono belli. Belli davvero.
Il colore si espande, l’anima vi si immerge, l’aria è materica. La danza sinuosa e precisa delle forme, del punto, della linea. Il vento delle idee e della trasformazione, la fantasia, il sogno, l’immaginazione. La musica. Quanta musica nelle sue opere. Vi è il flauto (il blu, per lui) il tamburo (il rosso, per lui), e poi il pianoforte, e il violino, e il contrabbasso. Mille sfumature e tangibili sensazioni.
Desiderava, Kandinskij, far immergere il suo spettatore nella pittura. Nell’emozione della pittura, che è libertà e potenza insieme, è fiducia e controllo, viaggio e meta. Tutto questo è Kandinksij. E, più di tutto, quella magia eccezionale del colore. I colori di Kandinskij sembrano arrivare direttamente dall’arcobaleno. O dalle fiabe. O dal nostro mondo del desiderio e dei sogni.
La mostra ci porta e ci racconta un viaggio, il viaggio spirituale dell’artista. Che studia Giurisprudenza, che inizia a insegnare all’università e poi decide verso i trent’anni di lasciare una strada sicura per una più insicura e soprattutto impervia: quella dell’arte. E allora ritornano i suoi ricordi di quando era bambino, quando viveva dalla sua cara zia ad Odessa, e si ricorda di quei cavalli, di quei cavalieri, di quei giochi così semplici e incantevoli. E si ricorda di qual viaggio dei suoi ventitré anni nella regione del Vologda, a 500 km a nord di Mosca, dove tutto era colorato e anche gli abitanti di questi paesini gli sembravano macchie di colore che camminano sulle gambe. E quelle isbe, le case russe, tutte decorate. Un horror vacui folcloristico e dinamico.
E si ricorda dell’amore. Della madre. Della sua amata Mosca. E della musica.
E le sue opere sono luce pura.
Come nel dipinto Il Cavaliere (San Giorgio), del 1914 – 1915. Qui la storia raccontata è tradizionale e famosissima. San Giorgio che uccide il drago per salvare la principessa. Un santo, san Giorgio, molto legato alla storia cavalleresca, al mondo profano. E anche al mondo filosofico. Un uomo che con la sola forza del pensiero, dell’amore e della purezza dell’anima riesce a sconfiggere un terribile drago. E il dipinto di Kandinskij ha tutto ciò che sembra essere un sogno: lilla, rosa, gialli, rossi, azzurri. A sinistra, un drago quasi come un coccodrillo, al centro, San Giorgio, a destra, la principessa. Sullo sfondo, Mosca.
L’atteggiamento del Santo e della Principessa però sono il pARTicolare interessante: il santo giusto tratteggiato, in un anno in cui l’artista aveva già realizzato la sua svolta all’astrattismo, sembra guardare dietro di sé. Sembra essere richiamato da qualcuno. E la principessa. Lei è lì, un po’ altera, un po’ impaziente. Forse lei l’ha chiamato. Forse lei in qualche modo ha attirato la sua attenzione.
E lui sembra voltarsi verso dietro, verso di lei, come per trovare la forza per vincere sul mostro fantastico e fantasioso. E quei piccoli tratti dei due volti immaginifici si ritrovano anche nel dipinto della Piazza Rossa di Mosca. Una città che rotea, che corre, che turbina di colore. E al centro lui e lei, Kandinskij e la sua Nina, la sua giovanissima seconda moglie. Ignari del vulcano di luce e colori intorno a loro. Perché loro, se li osserviamo bene, sembrano solo intenti a tenersi per mano e a guardarsi.
Nella fiaba e nella realtà, nella storia e nella magia, nella terra e città madre e nel racconto di una favola: i due innamorati si cercano, si sentono, si guardano.
Tutto intorno, solo un sogno, solo un mondo che non c’è.
E che loro, con il loro amore, non possono fare altro che creare.
Tra musica, respiro, vento e colori di vita.
Scritto per MIfacciodiCultura – Artspecialday.com
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