Il 18 maggio 1939 nasceva Giovanni Falcone. Il mio pensiero dedicato a lui.
E agli uomini come lui.
Ci sono alcuni temi che mi provocano un’emozione incontrollata. E soprattutto improvvisa. Ad esempio, la morte di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Quello che è accaduto in quel lontano, e così vicino, 1992, ogni volta mi provoca come un singhiozzo istantaneo. Non so perché. O almeno sto cercando di capirlo. Per me, sono come eroi. Persone impossibili da imitare e eguagliare, nonostante proclamassero la normalità delle loro azioni. L’onestà per loro era dovere morale e coscienza. Spesso ci penso.
Guardandoli mi vengono in mente gli uomini di una volta. Gli uomini di quella generazione di cui faceva parte, più o meno, anche mio padre. O almeno, io li ricordo così simili. Profumati di dopobarba misto a sigaretta sempre accesa. Occhi vivi e gentili. Modi di fare eleganti e discreti. Timidezza e forza. E soprattutto abnegazione totale per il lavoro. Per il loro lavoro quegli uomini erano pronti a vivere e morire. E le delusioni, per quel lavoro, che può anche uccidere.
Gli uomini di quegli anni avevano gli occhi teneri e decisi. Un’eleganza semplice. Un completo e una cravatta senza pretese. Il volto pulito. Poca voglia di apparire.
Forse mi emoziona, Giovanni Falcone, perché lo sento così vicino, ancora.
Giovanni Falcone è stato un martire per il suo popolo. Per il suo lavoro. È stato ucciso con la sua compagna semplicemente perché lavorava con intensità e con onestà. Con caparbietà e decisione.
Dietro quel sorriso un po’ sarcastico e sempre sereno, si nascondeva un leone. Un leone pronto ad azzannare con tenacia per la libertà e la moralità di questo Paese.
Ma ciò che mi colpisce è quell’immolarsi sincero per il proprio lavoro, soprattutto questo. E questo è terribilmente contemporaneo.
Lavoro che distrugge, delude, chiude, ti licenzia, ti allontana, ti sposta, ti mette in cassa integrazione. Quando e come vuole lui. Lavoro per cui tu sei pronto a morire, e ti delude, ti declassa. Ti sputa in faccia ti umilia ti azzera la dignità. Lavoro, qualsiasi lavoro fatto con tanta passione. Ti uccide dentro.
Credo Giovanni Falcone fosse già morto dentro mille volte. Quando i suoi colleghi non lo appoggiavano. Quando nei dibattiti in tv gli dicevano che parlava contro «la miglior classe dirigente di tutti i tempi solo per metterla in cattiva luce agli occhi degli italiani». O quando gli dicevano che la sua scorta era inutile. Quando gente comune gli diceva che la sua scorta era inutile. Era morto già Falcone, quando gli avevano ucciso colleghi e amici come Rocco Chinnici e il generale Dalla Chiesa. Era morto. Era un morto che camminava Falcone. Un martire che sapeva già dove andava.
Come aveva affermato a una intervista da Corrado Augias: La mafia sta preparando qualcosa di davvero forte.
Lui già lo sapeva. Conosceva bene quel lavoro che diventa un cancro. Una malattia che conosci. E sai già dove ti porterà.
Penso ai lavoratori dell’Ilva.
Ripenso a mio padre distrutto intimamente dalla Fiat.
Penso ai lavoratori morti alla Thyssen.
Penso a chi viene umiliato a cacciato dall’Azienda in cui ha dato anima e salute.
Penso a tutto questo.
Penso a quegli uomini. Al loro sudore. Alla loro dignità. Al loro eroismo.
Penso all’amore e passione per il proprio lavoro e al rispetto della propria coscienza.
Ripenso a quel profumo di dopobarba e sigaretta.
Fumavano così tanto gli uomini di quegli anni. Erano così nervosi e incoscienti. Così belli e appassionati.
Così uomini. Santo cielo. Uomini dignitosi.
Penso a quel profumo. A quegli occhi buoni e sinceri.
Al lavoro che uccide, allontana, delude.
Penso a Falcone, e penso a tutti gli uomini come lui.
Con questo dannato singhiozzo strozzato. E tutto il rispetto che sento.
Scritto per MIfacciodiCultura – Artspecialday.com
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