Il percorso dentro la Pinacoteca Ambrosiana è come uno scrigno miracoloso. 

Vi sono capolavori che vanno dal Quattrocento all’Ottocento. La Pinacoteca è stata fondata nel 1618 da Federico Borromeo,  e il primo nucleo di opere era formato proprio dalla sua collezione. Opere di Bernardino Luini, uno dei suoi pittori preferiti, di Botticelli, una meravigliosa Madonna del Padiglione (1493), copie della bottega del Tiziano. I fiamminghi Jan Brueghel e Paul Bril, dove i paesaggi diventano protagonisti di storie narrate in piccolo, come in secondo piano. Il paesaggio, le nature morte, iniziano a essere protagoniste seducenti di olio e tela. Una pittura lucida, perfetta, liscia, riflettente.
E l’ambiente del museo ambrosiano è ricco, lucente. Mosaici e marmi bellissimi accolgono il visitatore.

Pinacoteca Ambrosiana. Scalone principale.

Pinacoteca Ambrosiana, Scalone principale  

La Pinacoteca si è ampliata con numerosi lasciti durante i secoli. Forse il più famoso, quello realizzato nel 1637 dal Marchese Galeazzo Arconati che donò il Codice Atlantico(1478 – 1519) di Leonardo Da Vinci. Vi sono inoltre capolavori del Seicento, che raccontano un nuovo sguardo sensuale sulla donna, e opere dell’Ottocento: Francesco Hayez e Emilio Longoni narrano due nuovi fedi: la fede patriota, il primo, la fede nell’uomo e nell’umiltà sociale, il secondo.
C’è un filo conduttore, però, che unisce tutte le opere esposte. Come un basso continuo, che si dirama tra le pareti di un luogo miracoloso: luogo di arte, cultura, letteratura, religione e studi eterni. Il filo conduttore è il racconto delle emozioni. Un tema che a Federico Borromeo stava molto a cuore. Lui, uomo di chiesa e uomo di cultura, che amava e promuoveva anche attraverso l’Accademia da lui creata, l’arte della Controriforma. L’arte della Controriforma pretendeva didattica e sentimento. L’arte dunque doveva in tutti i modi mantenere stretti i propri fedeli, non farli allontanare verso il nuovo Protestantesimo, raccontando storie umane di Santi e Martiri, di Vangelo e Redenzione. E l’arte religiosa barocca lo fece con ori, marmi lucenti, corpi, bellezza, cupole di chiese che sembrano volare oltre la conoscenza. E il pathos. Il pathos espresso, stravolto, riconosciuto come elemento fondante della nuova comunicazione religiosa.
Eppure in questo percorso, alla fine, avviene un miracolo.
In questi passaggi di corpi, pathos estremo, emozioni, sensualità di Maddalene e Susanne, decapitazioni di Oloferne, paesaggi fiamminghi meravigliosi.
Ecco, tutto in realtà si risolve nel silenzio più mistico.
L’ultima sala è la Biblioteca Federiciana.
Qui, canti gregoriani in sottofondo abbracciano il patrimonio immenso creato e aperto al pubblico nel 1609 da Federico Borromeo: una biblioteca che raccoglie scritti di ogni dove, in ogni lingua. Studi religiosi, teologici, culturali. Letterari.
Qui, la nuova installazione creata ha un potere profondo.
Ai lati, sono posti disegni del Codice Atlantico di Leonardo. A costruire tre navate in questa Chiesa Laica. In questo tempio del sapere, dove sacro e genio umano, dove Fede e Conoscenza si intrecciano inesorabilmente.

Alla fine del cammino, come posta su un altare moderno, la Canestra di Frutta (1599 ca.) del Caravaggio. Forse può sembrare un’eresia. Ma non credo.

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Caravaggio, Canestra di frutta, 1599, Milano Pinacoteca Ambrosiana 

Caravaggio, attraverso una canestra, perfetta nel vimini reso quasi chimicamente nella sua essenza, posto un po’ più avanti sulla base di legno come a sottolinearne la prospettiva, questa canestra di frutti bellissimi – fichi, uva, pere, mele –  racconta il dramma umano, eterno, e profondamente religioso:  lì, al centro, una mela ha un buco. Come se il verme fosse appena arrivato a rendere marcia quella finta perfezione. Tutto ciò che è umano, fisico, è passeggero. L’umanità è intrisa di peccato. Ai lati, le foglie, bellissime, anche loro bucate, accartocciate, sono già senza vita. Sono già morenti e senza luce, senza linfa. Un verde marcio, opaco, contrasta con la lucentezza dei frutti.L’opera del Caravaggio, una natura morta, è ciò che di più vivo e umano è presente in tutto il museo.

Ma lì, il pARTicolare. In primo piano. Una mela bacata. Sta per morire. Sta per marcire.

Non c’è bisogno di sensualità, di didattica, di racconto.  Non ci sono corpi nudi di Maddalene Penitenti, non ci sono virtuosismi di spazi e prospettive, e neanche colori spettacolari e sognanti. Non vi è neanche la ricchezza di mosaici e marmi luminosi.
Il racconto umano, di fede, povero, carnale,  vivo, è concentrato, come in uno scatto fotografico, tutto lì. In una canestra di frutta.

Nel Musaeum, testo che raccoglie gli scritti di Federico Borromeo dedicati a ogni opera della sua collezione, troviamo scritto proprio il pensiero del Cardinale su questo dipinto. Egli affermava che era riuscito ad avere una opera meravigliosa del Caravaggio. Così bella come i suoi dipinti fiamminghi di Bril e Brueghel. Ma così bella che non riusciva a trovare un dipinto valevole di fermarsi al suo fianco.

Era, quindi, da lasciare da sola.

E così, oggi è. Da sola. In fondo a un percorso di musica e genio.

Come su un altare di terrore e solitudine.

Caravaggio aveva raccontato l’umanità. Mortale, marcia e infedele.

E Federico Borromeo l’aveva capito bene.

 

Scritto per MIfacciodiCultura – Artspecialday.com 

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