Antonio Canova nacque il primo novembre 1757 a  Possagno e morì il 13 ottobre 1822 a Venezia.

Pensando a Canova, talvolta mi sono chiesta come un uomo, un artista in particolare, possa dedicare tutta la sua vita a un ideale come “la calma grandezza e la nobile semplicità” nelle sue creazioni. La creazione nella mia testa è tutto ciò che si allontana dalla calma e dalla perfezione. Perché deriva dall’intimo dei sentimenti. E credo che sia molto complesso e di altissima capacità artistica saper tradurre sempre un impeto in sintonia, equilibrio e bellezza.

Ma in questi giorni ho scoperto una sua opera inaspettata, e ho pensato che in effetti l’umanità, almeno per una volta, anche per Canova, è diventata l’assoluta protagonista.

Parlo della sua rappresentazione della Maddalena Penitente, di cui vi sono due versioni. Una prima versione si trova a Palazzo Doria-Tursi a Genova (1793-1796 circa) e la seconda versione è collocata all’Ermitage di San Pietroburgo (1805-09).

Mi concentro ora sulla versione dell’Ermitage. La Maddalena viene ritratta in ginocchio. Tutta la posizione, tutto il suo corpo scolpito connota sfumature infinite di sentimenti: penitenza, ma anche dolore, stanchezza,  distruzione, mancanza totale di forze, perdita, solitudine.

Il corpo si abbandona leggermente verso sinistra. Le braccia, con i polsi verso l’alto, sembrano voler accogliere un sentimento intero, troppo pesante per una donna sola. E questo si nota soprattutto in questa versione dell’Ermitage, in cui la donna non tiene tra le mani il Crocifisso in bronzo. Qui infatti Maddalena è come se incontrasse un dolore più ampio di quello della perdita del suo Signore. È un dolore totale, largo, esteso. Una perdita che piega le ossa e sfinisce le membra. Una donna eterna, che rappresenta le donne di ogni tempo.

Però, il Canova, anche qui, non ha abbandonato la bellezza.

Maddalena è avvolta in una veste leggera e delicata, anche sensuale. Le sue spalle e la sua schiena sono nude, coperte solo dai lunghi capelli. Il volto, con le labbra semi aperte, come in un grido di dolore, mantengono una espressione delicata. Le lacrime solcano il viso di marmo bianco, e i singhiozzi sembrano incastrati in gola, in quel petto che implora pietà.

Le gambe, inginocchiate, si abbandonano leggermente sulla sinistra. Un corpo che sta per cadere, attratto da una forza verso terra. Il dolore che piega e fa crollare quel marmo nudo e puro.

Lo sguardo, fisso, a osservare ciò che nelle mani non c’è più. Qualcosa, qualcuno di perso e mai dimenticato.

Nella “quieta grandezza” Canova ha realizzato la più drammatica Maddalena mai rappresentata. Più del Caravaggio, più delle urla soffocate del manto rosso del Masaccio. Perché qui lei diventa carne e vita.

Di fronte ai nostri occhi adoranti.

Scritto per MiFaccioDiCultura – Artspecialday.com 

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