Non avevo mai pensato alla migrazione come una danza.
Invece forse è il primo passo che si dovrebbe fare, per comprendere.
Una danza di corpo, di preghiera, di cadute.
Di anime salve e dannate, di anime galleggianti e dolenti.
Di colpi presi, di corpi che si accasciano.
Di occhi verso il cielo. A pregare.
A cercare risposte, a domande che è anche difficile porsi.
Una danza sul mondo che scivola.
E scivola.
A tenerti stretto, solo il corpo.
Elizabeth Aro inaugura oggi alla Galleria Gagliardi e Domke di Torino, in via Cervino 16, la sua esposizione Mundo e Los Otros. La mostra sarà visitabile fino al 29 luglio.
Elizabeth Aro è nata in Argentina a Buenos Aires, ha studiato Belle Arti all’accademia Prilidiano Pueyderron di Buenos Aires IUNA. Dal 1990 a 2005 ha vissuto a Madrid e attualmente vive in Italia. Questa affascinante mostra è stata già realizzata a Milano, nella ex chiesa di San Carpoforo dell’Accademia di Brera.
Partiamo dalla costruzione dell’esposizione.
La mostra a Torino si sviluppa in due spazi di percorso. Nell’atrio ci sono tre installazioni: Mundo, una sfera, nel centro della sala, di feltro cucito dall’artista e di ben tre metri di diametro; Los Otros, fotografie di grande formato che Elizabeth Aro ha realizzato per il Museo Reina Sofia di Madrid in occasione di una sua mostra personale; quattro schermi video – documentari realizzati nel 1998, un mix di interviste realizzate da Elizabeth a diversi migranti. Questo è stato il primo passo realizzato dall’artista per affrontare il tema della migrazione. Nella seconda sala sono esposte le fotografie di Los Otros in piccolo formato, modificate e raccolte in fili rossi, fili che ha cucito l’artista sulle fotografie stesse. Infine, un’installazione di filo spinato, creato con il velluto: un filo spinato, quindi, disarmante e disarmato, leggero e innocuo. Solo una profonda evocazione.
Ora, pensiamo al titolo.
Il mondo e gli altri. Il tema dell’Altro è sempre presente soprattutto nella nostra contemporaneità. Un tema filosofico, che in realtà si rispecchia profondamente nella concreta vita quotidiana. Altro da chi? Chi è l’Altro? Il diverso? Siamo anche noi, altri da loro, giusto? Da quale punto di vista si dice Altro?
Il mondo di feltro che oscilla dall’alto del soffitto è un elemento emblematico di questa questione. Il mondo non ha un solo punto di vista. E soprattutto sembra scivolare verso il sud. Verso il basso. Verso quella parte del mondo che si chiama, nelle nostre parole, molto spesso, Altro. Gli altri.
E allora gli altri sono fotografati sulle pareti, immensi e presenti. Abbracciano quel mondo in sordina, color panna, di feltro. Feltro, materiale povero e tattile. Feltro, cucito dalle mani dell’artista. I continenti sono risucchiati verso il sud del mondo. Un movimento verso il basso. Non sono più gli altri che migrano verso il nord, ma sono i continenti stessi che scivolano verso Sud, verso quella parte di mondo che ha più bisogno di cure.
Ora, un pARTicolare.
Tra le foto di Los Otros, uomini e donne danzanti, con corpi morbidi, flessibili, che si alzano, cadono. E sembrano prendere colpi da ogni dove. Un “dove”, però, non visibile. Intorno a loro, solo il nero. Il nero che li avvolge, ma che allo stesso tempo li rende più vivi, tridimensionali. Luce e colori a tornire le forme.
Ma un uomo, soprattutto, mi colpisce. E mi ricorda qualcosa.
Un uomo, magrissimo, una camicia rossa.
Una luce lo illumina dall’alto.
Vene sulle mani. Camicia e pantaloni accartocciati. La luce si intreccia in queste linee di infinito.
Le labbra tristi, con gli angoli della bocca che scivolano verso il basso. Come i continenti scivolano nel sud.
La mano sinistra ad abbracciarsi. La mano destra, lunga e distesa sulla sua gamba. Una posa quasi malinconica, il chiasmo della carne e del corpo rimanda alla statuaria greca, sempre alla ricerca di equilibrio e armonia: un braccio in alto, uno in basso, una gamba indietro e una avanti, a creare una X, a creare anche una croce.
Eccola la croce. Eccolo il ricordo.
I colori, le ombre, la luce che illumina e distrugge il buio. La luce che rende vivo ogni elemento del corpo e del volto. E quella posa come dolorante, come se il corpo, in questo momento, fosse colpito intimamente da qualcosa, o qualcuno.
Eccolo, il ricordo.
La Flagellazione di Cristo (1607 – 1608) di Michelangelo Merisi detto il Caravaggio: il Cristo al centro, quel drappo bianco. La luce e le ombre. Una danza, i suoi piedi, il suo corpo accovacciato dal dolore, ma sempre elegante e robusto. I sicari intorno a lui, quasi nascosti dalle ombre.
Una luce, dall’alto, illumina il Cristo.
Il suo sguardo verso il basso. Uno sguardo di chi soffre, ma di chi sa, di chi accetta il dolore, in nome dell’amore del mondo. Lui, figlio di Dio. Dio in terra.
Lo sguardo dell’uomo ritratto da Elizabeth, però, punta verso l’alto. È lo sguardo di chi ancora, per fortuna, spera di vivere. Di chi lotta per vivere. Di chi non accetta subendo il “calice amaro” della morte e della risurrezione.
Anche perché l’uomo sa che, in questa vita, non potrà risorgere.
E allora, a quel mondo dal soffitto si attacca.
A quel buio si ribella.
Da quel dolore si difende.
E al cielo, guarda. Pregando nel silenzio.
Non avevo mai pensato alla migrazione come una danza.
Invece forse è il primo passo che si dovrebbe fare, per comprendere.
Una danza di corpo, di preghiera, di cadute.
Di anime salve e dannate, di anime galleggianti e dolenti.
Di colpi presi, di corpi che si accasciano.
Di occhi verso il cielo. A pregare.
A cercare risposte, a domande che è anche difficile porsi.
Una danza sul mondo che scivola.
E scivola.
A tenerti stretto, il corpo.
E la luce della speranza.
Per Approfondimenti: Elizabeth Aro
Scritto per MIfacciodiCultura – Artspecialday.com
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