Nel buio una luce accecante.

La lotta, la battaglia, la potenza estrema. Lance e distruzione. Cadute e rivolta.

E poi lì, un dettaglio. Simbolo dell’umanità intera e della Storia degli uomini.

Palazzo Massimo è il Museo Nazionale Romano. Si trova vicino alla Stazione Termini, e la sua entrata tra palme e il bianco della facciata è imponente e bellissima.

Si sviluppa su quattro piani. Piano terra e primo piano accolgono le statue romane e i sarcofagi, il secondo piano gli affreschi dell’antica villa Farnesina e di Villa Livia, nel seminterrato Numismatica e Lusso dell’epoca romana. Un museo che si sviluppa in verticale, con una corte interna verde, separata da un vetro che promette vento e conoscenza.

Mi sono imbattuta, per caso, in una scultura egregia e sconvolgente: trattasi del Sarcofago di Portonaccio, rinvenuto nel 1931 proprio nei pressi di Portonaccio, quartiere di Roma, e databile circa al 180 d. C. 

Il sarcofago è racchiuso in una stanza buia, illuminato dall’alto. L’effetto chiaroscuro che ne deriva è un miracolo dello sguardo. In esso viene raffigurata una battaglia  in altorilievo tra Romani e Barbari. Lance, cavalli, teste, corpi,  lotta dell’umano per l’umano e per la vita. In alto, il potere e la foga dei romani in attacco con le lance a scalfire il tempo e lo spazio. E il marmo. In basso, i barbari travolti e distrutti. Armi, scudi intagliati, e ai lati due coppie di barbari “asserviti”, rassegnati alla loro perdita di fronte alla potenza romana.

Eppure, un pARTicolare ha attirato per minuti e minuti la mia attenzione.

In generale, questa sovrapposizione di due piani è abbastanza chiara. Potenza e remissione, forza e debolezza, vittoria e sconfitta.

Ma un uomo non perde, non soccombe.

Al centro, eccolo, un barbaro: caduto, un virtuosismo di corpo egregio realizzato dall’artista sconosciuto, le gambe ancora ancorate al cavallo, il torso in tensione a tergo, la testa in torsione verso l’interno. Tutto il suo peso su un suo braccio. Tutta  la forza e la volontà di rialzarsi, di reagire e abbattere la potenza sovrastante. Con le braccia, con la testa tutta la forza per rialzarsi, in quell’istante. 

Le battaglie sono racconti di uomini, racconti individuali, non generali. Nella visione lontana vi è solo una massa di lotta e corpi. Nella visione particolare, vi sono sguardi di uomini, storie, decisioni. E anche potenti reazioni di volontà espressa. Dal corpo, dai muscoli, dalla posa. Da una semplice attitudine.

Una metafora della guerra di ogni tempo. Delle battaglie, delle vittorie e delle perdite. Che sono relative, perché comunque soggettive.

Quel barbaro, per me, ha vinto. E vince. E vincerà.

Michelangelo Buonarroti, nel 1490-92,  realizzò La Battaglia dei Centauri (Vedi: Il pARTicolare. La Battaglia dei Centauri di Michelangelo). Il richiamo agli altorilievi romani è diretto. Con una differenza: qui, nella Centauromachia, al non ancora ventenne Michelangelo non importa chi vince.

Nessuno, vince.

Il tema è la battaglia stessa. La lotta estrema dell’umano.

Non ci sono romani vittoriosi e barbari derelitti.

Vi è  solo la battaglia dell’umanità, la potenza e la bellezza dei corpi, il virtuosismo della creazione.

La verità della vita che è spesso una battaglia individuale.

Per me, quel barbaro ha vinto.  E vince. E vincerà.

Scritto per MIFaccioDiCultura – Artspecialday.com

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