“What if God was one of us

Just a slob like one of us

Just a stranger on the bus

Trying to make His way home”

[“E se Dio fosse uno di noi?

Solo uno sciattone come uno di noi

Solo uno straniero sull’autobus

Che cerca di trovare la sua strada verso casa”]

Joan Osborne, One of Us, 1995

Inaugura oggi, alla Galerie Julia Dorsch di Berlino (Breite Straße, 20), una mostra personale di Stefano Bosis. Di lui ho già parlato (Vedi: Stefano Bosis alla Galerie Julia Dorsch), un artista dal cuore immenso e dallo sguardo attento. Sguardo che incide ciò che gli vive intorno, e dentro. 

Ho deciso qui di raccontare una sua opera in mostra, in pARTicolare:  A ship of fools, 2015. 

È come se fossimo tutti la stessa persona, a volte.

Non vi è distinzione, in realtà se ci pensiamo, tra chi parte e resta. L’umanità è un circolo continuo. Chi parte arriva e deve ripartire con un’altra vita. Chi resta ha la spinta ogni giorno di partire. Chi è che non parte? Pensiamoci. Nessuno non parte. Pochi restano. Non c’è molta differenza, fra noi e loro. Non c’è differenza fra me e te. Quando si dice “siamo tutti sulla stessa barca”. In un certo senso, è vero. E direi, forse siamo tutti su quella barca ritratta da Stefano. Sicuramente, non c’è neanche un noi e un loro. Sono le nostre idee, il nostro bisogno di razionalizzare tutto, di spiegare, di giudicare che ci fa diventare ingegneri dell’umano. Di creare e disintegrare categorie: Noi, loro. Dentro, fuori. Belli, brutti. Buoni, cattivi. Gli italiani sono stati migranti, gli africani sono ora migranti con i siriani e tanti altri. I rumeni sono stati migranti. Gli albanesi sono stati migranti. Chi è restato, ha vissuto con chi è arrivato e l’accoglienza è partenza. Perché vivi e crei un mondo nuovo. Il tema della migrazione è un tema che tratto spesso. Con Stefano Bosis ne parliamo spesso. E Stefano Bosis ha trattato questo tema nelle sue opere. Tratta l’umanità, Stefano. In ogni sfaccettatura, da ogni punto di vista. Contro ogni perbenismo. Con una sincerità violenta, questa volta. Il punto di vista si è ravvicinato. I volti sono enormi, storpiati.

Una barca di folli che urla, crea espressioni di facce estreme e stracciate. I movimenti sono convulsi. I volti sono inebetiti, osservano un punto fisso senza capire. O forse capiscono. 

“Questa volta i migranti li ho guardati da vicino”, mi dice Stefano. E descrive così il tema del dipinto:

“La barca dei folli è una allegoria che deriva da Platone. L’allegoria dipinge un vascello senza un pilota, popolato da esseri umani che sono folli, frivoli o ignari e sembrano ignoranti nel loro cammino. Pensando al  tema dei migranti come a una domanda aperta, chi sono davvero quelle persone che sulla barca sembrano folli, frivole, ignare  e ignoranti?”

E chi sono i migranti? E soprattutto, il titolo dell’opera è “A Ship of fools”. Perché pensiamo siano i migranti?  Cosa sono in realtà i migranti per noi? Noi, che forse siamo quella coppia ritratta a prendere il sole in spiaggia (Travolti da un insolito destino, 2015). E quell’uomo mi ricorda così tanto il Cristo Morto del Mantegna (1475-78), con la sua prospettiva ardita e sconnessa.

Chi sono i disadattati? Chi sono i pericolosi, gli strani, i diversi?

“Il viaggio che racconto non è fisico, è un viaggio dell’anima. Alcune persone hanno paura del cambiamento. Ma il cambiamento è amore.” Dice Stefano. È un tema complesso, con un titolo complesso, quello di quest’opera. Una nave di folli che viaggia senza nessuno che li guidi, guardando ovunque e guardando nessuno.

Ma c’è un pARTIcolare, in questa massa di colori, uomini e olio. 

C’è Stefano. 

È lì, lo ritrovo. Lo rivedo. Si è ritratto in quella barca. E allora i miei pensieri diventano reali. In quella barca ci siamo tutti. “Non è un’immagine da telegiornale o da magazine. Quelle immagini che ci hanno propinato per un anno intero”.Dice Stefano. No. Questa immagine racconta la vita di ognuno di noi.  Di lui stesso. Aldilà del pensiero del migrante in barca. Qui i volti sono vicini. Li possiamo toccare.

E il pittore si è ritratto tra i viaggiatori. Tra la carne, gli sputi e le ossa. Nei vestiti sgualciti, nel vento che trascina, nel mare che inghiottisce. Nel carnevale dell’umano che urla per avere attenzione.

Come Michelangelo Buonarroti, nel suo Giudizio Universale (1535-41), si era ritratto sulla pelle sfatta di San Bartolomeo. “Sono nulla di fronte a te, Dio. Se non pelle disfatta, sfacelo di nebbia”.

E se Dio, qui, fosse uno di noi? Ci pensiamo mai? C’è anche lui su quella barca. Qualsiasi Dio ha la pelle sfatta e il dolore nel ventre. E non è più così lontano.

Un’altra sua opera mi colpisce.

Journey to Keplero 425b, 2015.

Una bolla sembra volare in aria. Dentro, tutto un mondo si crea, si distrugge. Vive di vita propria. Mi ricorda quelle opere di Hieronymus Bosch che sembrano così distanti nel tempo e nello spazio, che sono invece così vicine.

Il ritratto di una umanità in sfacelo. In sfacelo per chi parte. Perché “Se uno sale su una barca è perché la terra non è sicura” . Dice Stefano, citando il poeta Warsan Shire.

Il ritratto di una umanità in sfacelo, per chi accoglie. Giudica, contesta, si chiede, comprende, non comprende. Si arrende. Non si arrende.

Non ci arrendiamo.

E se Dio fosse uno di noi?

Scritto per MIFaccioDiCultura – Artspecialday.com

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