Il sacro, sullo sfondo.

Coperto dal colore e dallo sporco degli anni. Dall’incapacità di curare. Curare.

Il sacro, sullo sfondo. Nascosto. Sottointeso.

Qui, la ripresa intima di un dolore. Inaspettato.

In primo piano, solo l’umano.

Vorrei parlare, oggi, attraverso l’arte, di un tema che tocca profondamente, questi giorni, la coscienza credo di ogni essere umano.

Settecento morti nel mare.

Settecento.

Una guerra infinita, la tragedia del nostro secolo. Il nostro essere impotenti e tremendamente vulnerabili. Si tratta solo di umanità. E di coscienza.

A Parigi, al Grand Palais, si è svolta in passato una mostra che sconvolge qualsiasi occhio. La mostra dedicata a Diego Rodríguez de Silva y Velázquez.

Tutto questo, nella mia testa si unisce.

Diego Rodríguez de Silva y Velázquez, nato nel 1599 e morto a Madrid il 1660, conosciuto soprattutto per la sua Venere allo Specchio e a Las Meninas, fu in realtà il pittore più vero, più terribile del secolo Diciassettesimo. Soprattutto, pittore di sguardi che non lasciano scampo alla nostra coscienza. Conobbe la lezione del Caravaggio che arrivò anche a Siviglia, conobbe l’aria della riforma luterana, conobbe e volle, fortissimamente volle ritrarre l’umanità nella sua più cruda realtà. Apprese la luce visionaria del Tintoretto, la pittura veneta della fantasia allucinata.

In confronto al Caravaggio, il suo colore è più sfaldato, perduto nei meandri della luce diffusa, la pennellata soffice e sfumata. Gli sguardi dei suoi personaggi sono intensi e terribili. Posseduti da una verità sconosciuta, a noi spettatori.

Penso al superbo Ritratto di Madre Jéronima de la Fuente, 1620, un monologo  sconcertante di monito e di preghiera. Uno sguardo che non lascia scampo al nostro giudizio.

O al meraviglioso San Tommaso (1617-22 ca). Quello sguardo ha in sé la coscienza della verità, la coscienza dell’errore nella sua diffidenza, la coscienza intrisa di color terra, colore delle sue vesti. La sua sorpresa e orrore, nella stretta di quel libro sacro, nella stretta di quel legno santo.

Penso inoltre ai suoi nani ubriachi e felici nello spirito assente. I suoi ritratti sfaldati. I suoi sfondi neri dove l’umano e il sacro trovano il luogo dell’esistere. La sua Allegoria femminile sensuale e spogliata con le pennellate calde, semplice e delicata nella ripresa di profilo.  E a quello sguardo eterno di Papa Innocenzo X (1650), potenza intima che esplode nel rosso di velluto.

Ma un dipinto in pARTicolare descrive la grandezza e la potenza della pittura.

Vi sono state diverse discussioni sull’attribuzione a Diego Velazquez di questa opera. Opera che si dice appartenga al suo primo periodo.

Io, la trovo straordinaria.

Vi sono due versioni de La mulatta (1618-22):  una a Dublino alla National Gallery of Ireland (Vedi Immagine di Copertina) e una all’ Art Institute of Chicago. Nella versione di Dublino, durante un restauro, è stata scoperta sullo sfondo la rappresentazione della cena in Emmaus, racconto sacro di Rivelazione. 

Il dipinto di Chicago, anche senza quella scoperta in secondo piano, sacro, per me, rimane comunque: nella descrizione di un attimo eterno di debolezza, dolore intimo, timido, dignità umana. Il pARTicolare dell’intimità umana

Una donna, probabilmente la cameriera di una osteria, si ritrova sola. Nella cucina.

Oggetti dipinti con attenzione maniacale.

La sue mani si appoggiano disperate ad un tavolo. Il bianco del turbante viene ripreso da un fazzoletto in primo piano, da un panno sulla destra, nella sua manica di camicia. E in quella brocca luminosissima.

I suoi occhi guardano un punto fisso, verso il basso.

È un attimo di perdita. Perdita di forze, di coscienza. Di stabilità.

La potenza di questo dipinto è ritrarre una scena intima. Inaspettata. Assolutamente slegata da un racconto.  Un legame che diventa chiaro con la scoperta di quella scena sacra, sullo sfondo. L’Attimo, in una osteria a Emmaus, in cui Cristo viene riconosciuto, si rivela ai suoi apostoli. E agli uomini.

Il momento della Rivelazione che porta anche al dolore. Alla coscienza di sentirsi inadeguati, impreparati, impotenti. Fragili come l’umano, ma bellissimi, comunque, come il sacro in noi.

Una donna si appoggia a quel tavolo.

Un attimo di sconcerto, di dolore. La coscienza della Rivelazione avvenuta.

La timidezza nel non volersi mostrar debole, agli altri.

Il dolore che fa crollare le gambe.

Il sacro dentro.

Il sacro, eterno, dentro.

Dedico questo pARTicolare a  tutti i migranti e alle loro anime. Che nel momento del dolore si sono sentiti deboli, nella loro timidezza e nel loro intimo, fuori dallo sguardo altrui. Hanno avuto la fragilità della paura, ma anche la potenza estrema del coraggio. 

Dedico queste parole alle loro altissime anime, e al sacro profondo in loro.


Scritto per MIFaccioDiCultura – Artspecialday.com

Per Approfondimenti: http://www.grandpalais.fr/fr/evenement/velazquez

Federica Maria Marrella

Classe 1986. PhD in Comunicazione e Nuove Tecnologie. Il mio lavoro di ricerca si concentra sull’Iconografia Femminile nella Fotografia di Moda Contemporanea. Storica dell’Arte, Educatrice Museale. Docente di Storia dell’Arte. Scrittrice. Curiosa osservatrice. Amante della Poesia e della Musica. Costruttrice attenta e costante di Piccoli Sogni.

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