“L’opera di Newton si caratterizza per un perfezionismo germanico, una certa purezza di composizione, qualcosa di calmo, di metodico che contribuisce alla perfetta padronanza dei suoi soggetti.”
[Mia traduzione] Philippe Garner in White Women, 1976
L’opera di Helmut Newton (1920, Berlino – 2004, California) ha un suo fascino strettamente legato al Glamour e alla moda, in quanto le sue opere raccontano un mondo erotico e ricco, incatenato al denaro, al cliché della moda stessa. Ma, in realtà, ciò che vi è di nuovo in Helmut Newton non è il legame ai soldi e al fashion system. In Newton arriva, preponderante, violenta, inaspettata, per la prima volta, una nuova donna. Una donna maschia, che gioca il ruolo che, fino a quel momento, era stato dato all’uomo. Il ruolo decisionale, vigoroso, distratto, lontano. Fermo e incorruttibile.
Ciò che le differenzia dalle donne di Guy Bordin, è il fatto che, nonostante sia presente nelle sue fotografie un rimando alla pornografia, alla violenza, al dolore, le sue donne non sono svenevoli vittime. Le sue donne sono il potere. Hanno in mano il desiderio, la presenza di vita, la coscienza corporea. Hanno in mano il racconto della storia. Decidono loro il come e il quando. Decidono loro le ombre, i silenzi, le urla soffocate. Un nudo, quello di Helmut Newton, che si avvicina a quello pornografico. Ma vi sono alcuni dettagli che lo allontanano dalla pornografia: i corpi femminili di Helmut Newton sono ricollegabili iconograficamente ai corpi statuari della civiltà greca nelle pose, e anche nelle forme. Il corpo della donna di Newton, in molti scatti, è per prima cosa un corpo vigoroso nelle sue forme presenti.
Una delle sue fotografie più importanti ritrae una donna, vestita da uomo, in una strada nascosta della città. Lo sfondo è sfuocato. Tutta la nostra attenzione è su di lei, che gioca il ruolo di un lui. Un altro scatto, sembra completarlo. Compare il corpo nudo di donna. Entrambe sono ritratte come statue antiche, nella posa a chiasmo. Nei corpi che si completano, nella posa, nei vuoti e pieni. Un gioco di seduzione tutto al femminile. In cui la donna, per la prima volta, ha un atteggiamento, non solo un “abito”, maschile.
L’androgino qui prende forma nella sua statuaria sessualità. L’androgino qui diventa reale e narrato.
Una storia non solo immaginata, ma perfettamente riprodotta, senza ambiguità, davanti ai nostri occhi.
Un altro scatto, per me, dal potere sconvolgente: L’Autoritratto con la moglie e modella a Parigi del 1981. Il rimando pARTicolare è immediato, e porta a un dipinto realizzato nel 1656 Diego Velázquez: Las Meninas.
Questo capolavoro non è solo un’opera d’arte immensa e altissima. Essa è un trattato, senza parole. Un trattato sull’arte, sullo sguardo, sulla creatività, sul mistero della tela e della cornice, sul mistero della visione che non è mai reale, non è mai abbastanza. Una visione che non basta mai a se stessa. Una visione univoca non è la verità. E allora bisogna ritrarre il pittore, e il soggetto tramite uno specchio, e ciò che avviene aldilà della tela, e uno sfondo in mutamento, e una bambina che osserva, che guarda. Un gioco eterno dello sguardo e del guardare. E noi, nella parte del soggetto rappresentato. Noi, che ci ritroviamo nei volti lì in fondo, su quello specchio. Un gioco eterno e infinito. Nella pittura, nella musica, nella fotografia.
Il racconto che non basta mai a se stesso, ma deve essere ampliato, descritto, ristretto, ri-ambientato. Riascoltato. Sfocato o analizzato.
Deve essere, più di tutto, svelato.
E nel suo autoritratto Helmut Newton si ritrae a uno specchio, che fotografa la sua modella statuaria. Di lato, si intravvede, sempre nello specchio, una gamba bellissima di donna. Oltre, sua moglie, come sentinella e testimone della realtà impressa. Oltre, una porta, per niente sfocata, ma nitida e reale, come in primo piano. Solo alla fine, in questo sguardo che spazia nell’oltre, ci accorgiamo che in primissimo piano vi è il corpo di donna. Ma noi lo cerchiamo lì, sulla tela. Sullo specchio. Come se la realtà ritratta fosse più completa, veritiera. Perché l’oltre è importante come il primo piano. Perché il passato è importante come il futuro e l’adesso.
Quell’automobile di passaggio, in fondo, come il passare del tempo. Perché non c’è fermezza in questo fluido del tempo e dello spazio. E chi lo rappresenta, sente il dovere di raccontare cosa c’è, talvolta, oltre la tela.
Cosa c’è oltre un corpo perfetto, un ritratto durevole.
C’è il tempo. C’è lo spazio.
E c’è lo sguardo. Che cambia.
Visione mutevole ed eterna.
Oltre la cornice. Oltre la pellicola. Oltre la tela.
Scritto per MIfacciodiCultura – Artspecialday.com
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