“Quindi immagina una sorta di Locanda Almayer, dove tutti i personaggi che ci sono fanno parte di quel mondo che si muove lentamente e si lascia andare.
Come fa la schiuma nelle onde che vanno a rompersi sul bagnasciuga.
Sembra quasi una poesia, Fede.”
Stefano Bosis inaugura oggi, 18 Novembre, una mostra personale che raccoglie il suo lavoro dei migranti e nuovi meravigliosi sogni di pittura e olio, alla Galleria Julia Dorsch di Berlino.
Sogni e realtà che si intrecciano continuamente, in esplosioni di colore ed emozione.
Sogno e realtà che sono i temi profondi di ogni opera creata da Stefano.
La Locanda Almayer, di cui lui mi parla, è un luogo che esiste e allo stesso tempo non c’è. Un luogo presente, vivo, tattile, ma anche etereo, misterioso, evanescente. È la locanda dove si incontrano i personaggi del libro di Alessandro Baricco Oceano Mare (1993). Un luogo che cura. Che accoglie. Una locanda in riva al mare in cui si aspetta solo che non sia troppo tardi. Un luogo che lenisce il dolore, che schiarisce i desideri, che purifica l’anima, che concentra le forze.
Un luogo che è un non luogo, dove tutto ritorna e converge. Un luogo che riprende la locanda della follia di Conrad. Un racconto che richiama un dipinto, La Zattera della Medusa (1818 – 1819) di Theodore Géricault, soprattutto nella parte centrale, quando l’autore racconta cosa accade nel ventre del mare: passo passo, “la prima cosa è il mio nome, la seconda un volto, la terza un pensiero…” Quasi come una musica maniacale che avverte dell’orrido e delle tenebre che conoscono solo chi ha vissuto nel ventre del mare.
Stefano Bosis, con i suoi migranti, con le sue nuove opere, racconta l’essere umano in questa profonda realtà di sogno. Ma non con i colori terrosi e cupi di Théodore Géricault. Stefano racconta la verità umana contemporanea con colori limpidi, vivi, luminosi. Gioiosi. Stefano racconta il dramma attraverso la gioia dell’espressione.
Mi ricorda una frase di Roberto Benigni: “dovete essere felici. Siate felici, quando siete felici, e siate felici anche quando siete tristi. Per essere tristi bisogna essere felici.” Perché è vero. La tristezza e il dolore sono sentimenti vivi solo attraverso la coscienza delle emozioni, che si ha con la felicità, con la conoscenza e l’amore per il mondo, per la sua realtà.
E tutto questo lo vedo riassunto in particolare in due opere di Stefano.
Mare, 2016, che narra l’umanità insieme, il collettivo, lo sguardo unico e complessivo. E, dall’altra parte, uno sguardo invece interno, individuale, nel ventre sconosciuto di noi stessi: Flying Cloud, uomo su una Nuvola volante, 2016.
Mare richiama la costruzione della pittura romantica tedesca. Caspar David Friedrich, i suoi uomini piccoli e indifesi immersi nell’immensità e nell’infinitezza della natura, vengono qui interpretati nella nostra contemporaneità.
Un gruppo di uomini e donne, di spalle, sembrano danzare.
Ecco. Questo è il miracoloso.
Non vediamo il dolore. La perdita. La paura dell’affronto del mare. Sono migranti. Stanno partendo? Sono appena arrivati? Non lo sappiamo. Siamo solo portati da quei tocchi di colori vivi, che danno vita a forma e sentimenti.
Li vediamo. Li sentiamo. La nostra pelle ne è toccata e accarezzata. Ci sembra di vedere qualcuno che si accascia, qualcun altro che danza e canta, qualcun altro voltato verso di noi, come a chiamarci, qualcun altro concentrato solo a guardare il mare. O il cielo. Il mare e il cielo insieme. E quella nuvola nel cielo o quella barca nel mare, come specchio di quegli uomini e quelle donne, che si muovono nel vento. Nella tempesta.
Li vediamo, li sentiamo.
E dentro di noi accade quello che accade in nella nuvola fluttuante di Flying Cloud, uomo su una Nuvola volante. Che non è altro che un essere umano. Ricco, dentro, di mare, e vento. E ci sembra quasi più terribile e più doloroso questo primo piano di noi stessi. Delle nostre paure. Dei nostri timori, della nostra reticenza ad entrare nel ventre del mare.
In Mare, invece, c’è pace. Abbracciati insieme, gli uomini, si sostengono in quella danza di vento. Perché il ventre lo hanno conosciuto. E solo dopo il dolore incontrato nel ventre di noi stessi, siamo forse capaci di un sorriso cosciente, di una felicità condivisa, di una pace accesa. Dentro noi, invece, avviene la vera tempesta, il reale dolore e conflitto. Siamo nuvola di terra e acqua, di vento e pensiero, che talvolta non sappiamo affrontare. Ed è la paura ad attanagliarci, a fermarci. Se solo ci ricordassimo di quanto, insieme, possiamo fare.
Perché nella Locanda Almayer i personaggi raccontati da Alessandro Baricco – Elisewin, Adam, Bartleboom, il pittore Plasson, Padre Pluche, Mme Deverià – , tra vento, e freddo e angeli cadenti, si sentono felici, protetti. Insieme.
Dentro ognuno di loro, nel racconto di loro stessi, arriva il dolore estremo. Il caos. La coscienza della paura e del tormento.
Insieme, il mare si affronta.
Da soli, si affronta solo la nostra solitudine.
– È un uomo. È carico di colori che lo confondono. Se guardi bene trovi il suo profilo e poi tutto il resto. Sai perché, Fede? Perché a furia di camminare l’uomo ha dimenticato le ali.
– Perché ha dimenticato le ali?
– Perché ha smesso di credere. Perché si è dimenticato.
Si è dimenticato di saper volare.
Per approfondimenti: Galleria Julia Dorsch; Stefano Bosis.
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