“In genere, il jazz è sempre stato simile al tipo d’uomo
con cui non vorreste far uscire vostra figlia”
Duke Ellington
MOMA, NEW YORK, “Number One” (1948)
In realtà è musica.
Colore steso su una tela, potenza e realizzazione. Il corpo si unisce all’opera. Il colore è la stessa linfa della creazione. La rabbia si trasforma in pace. Quella enorme tela, di fronte a me, è pace. Ha un suo senso. Una sua direzione. Una sua premeditazione. Mi smarrisco nelle curve: ognuna porta da qualche parte, per farmi riperdere. Cerco di immaginarne il disegno, l’intenzione. Ma poi mi perdo, ancora. In un’altra linea, in un altro percorso. Un’altra strada. Inizio dalla terra. Quei piccoli fili ocra. Ma poi incrocio il nero. E il grigio, il bianco. Io sono molto piccola, di fronte a questa tela. Ma qui, sento una regola ritrovata. Nel nostro istinto, nel nostro impulso, c’è sempre un disegno di razionalità. Un senso. Un percorso stabile, deciso, premeditato. L’istinto porta sempre a un disegno.
L’arte qui è fisica, concreta, potente.
Pollock camminava sulle sue enormi tele. Le possedeva, le ricopriva con il suo essere. Dripping. Gocciolando, il colore si trasformava in un’altra anima. L’opera, Alter ego dell’artista, specchio dell’artista. Quell’opera, ancora più di un autoritratto, rifletteva in sé il creatore.
Cosa è il caso. Spesso non è altro che la realizzazione di un nostro desiderio intimo.
“L’ho incontrato per caso”
“L’ho baciato per caso”.
“Mi sono innamorata per caso”
Non è un caso, tutto questo. Tutto questo è realizzazione di una forza interna che crea. Riproduce. Riflette il nostro essere, realizza il nostro premeditato disegno. L’opera finale, una realizzazione disarmante. Un equilibrio. Un rapporto creato dalla quotidianità, dagli attimi e dal desiderio della creazione. Espressionismo astratto non è altro che espressione emotiva di una sensazione. C’è chi la colora sfumata e sognante come Rothko, chi la distrugge formalmente come de Kooning. E poi c’è lui, che fa gocciolare la sua passione.
Un movimento verso il basso che sprigiona verso l’alto.
Fino alla creazione.
Jazz. Improvvisazione.
C’è una linea comune che unisce le note.
Ci sono regole.
La tonalità, le tonalità.
Assonanza, dissonanza.
Il musicista crea, inseguendo la sua anima, una musica di pancia e di carnalità. E’ improvvisazione, ma non è caso. La musica si crea su linee di spartito precise, su linee musicali matematiche, su accordi, su terze, seste, quinte. Quinte diminuite.
Come ocra, nero, bianco e grigio, qui tromba, pianoforte, sax, batteria si sovrappongono. Suonano da soli, a momenti. Per poi ritrovarsi e confondersi, ancora.
Tonalità maggiore che vortica su una minore, per ricordarne l’improvviso blues.
Tonalità maggiore che scivola leggermente su quella minore, per ricordarne la sua tristezza intima, lontana.
Poi note, note. Dripping di note. Note gocciolanti. Cadono dal cielo. Perfette lì dove si trovano.
Corrono. Poi, si fermano. Rallentano, e accarezzano le nostre corde interne.
Non è più corsa. E’ un corteggiamento attento.
Quelle mani, sui tasti del pianoforte. Quel piede, forte, sul pedale.
Un movimento verso il basso, che sprigiona verso l’alto.
Fino alla creazione.
Scritto per MiFaccioDiCultura – Artspecialday.com
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