“Chi non ama queste immagini, non ama la poesia, capito? Se non ami la poesia, va’ a casa e guarda la tv con i cowboy col cappello da cowboy e i poveri cavalli gentili che li sopportano.”

Jack Kerouac su Robert Frank 

Domenica 15 Gennaio ho guidato un gruppo alla mostra dedicata a Robert Frank, allo Spazio Forma Meravigli di Milano.

Il percorso tra The Americans di Robert Frank è stato un viaggio disarmante, in cui mi hanno accompagnato le parole di Jack Kerouac, amico del fotografo, scrittore supremo della beat generation americana, e colui che scrisse l’introduzione alla prima edizione del libro The Americans, nel 1958.

Il mio percorso si è districato tra diverse parole, parole che ritornano continuamente negli scatti del fotografo svizzero. Parole come Juke Box, Razza, Nero, Bianco, Movimento, Automobile, Tram, Bar, Vecchiaia, Musica, Funerali, Passanti, Stampa, Cinema, Politica, Strada. Tutte parole che si incontrano, su cui si inciampa osservando questi scatti magistrali.

Ma partiamo dall’inizio.

Robert Frank è un fotografo svizzero, nato a Zurigo il 9 Novembre del 1922.

Alla fine degli anni Quaranta andò in America a studiare e lavorare. Vinse una borsa di Studio della Guggenheim Foundation: doveva viaggiare per un anno (1955 – 1956) e raccontare con la sua macchina fotografica i 48 Stati degli Stati uniti d’America. E così fece.  Come racconta Jack Kerouac, “con una automobile di seconda mano” viaggiò, si spostò, registrò con gli occhi e con il cuore, e raccontò senza filtri cosa vide, “con l’agilità, il mistero, il genio, la tristezza e lo strano riserbo di un’ombra ha fotografato scene mai viste prima su pellicola.” (J. Kerouac, dall’introduzione a The Americans). Cosa vide, non piacque agli Americani. Tanto che il libro con i suoi 84 scatti scelti, The Americans, fu pubblicato per la prima volta nel 1958 in Francia. Non in America. Gli Americani videro in questo lavoro gli occhi di qualcuno che l’America la disprezzava. In realtà lo stesso Robert Frank afferma quanto lui semplicemente guardò e registrò. Sì, forse con una critica. Ma la critica deriva sempre e solo dall’amore.

E poi, affermava, “le mie fotografie sono solo un bianco e nero.” Una frase che mi ha colpito e da cui mi sono ispirata per trovare un titolo al mio percorso.

Bianco e nero che è diventato, nella mia idea, bianco o nero. Perché osservando queste opere ci si rende conto di quanto sia rara la rappresentazione nello stesso scatto di persone bianche e persone di colore. Sembrano due Americhe divise quelle raccontate da Robert Frank. Due Americhe separate e distinte. E distanti.

Solo in due scatti ci troviamo di fronte a personaggi bianchi e neri: Nella famosissima Trolley, dove viene fotografato un tram in cui si nota la chiara divisone e segregazione razziale dell’epoca, con i posti davanti occupati dai bianchi e quelli dietro dai neri.

E un altro scatto.

Uno scatto che ritrae una signora nera, una tata probabilmente, e un bambino (o bambina?) bianchissimo, piccolo, splendente, tra le sue braccia. L’amore che non ha colore, che è quello che accadeva in molte famiglie bianche dell’epoca, dove i figli erano cresciuti da donne di colore che si occupavano di loro e della casa. Come racconta anche Harper Lee ne Il Buio Oltre la Siepe (1960), la sua tata Calpurnia (Cal), donna nera forte e tenera allo stesso tempo, che le fa da madre, amica, confidente e punto di riferimento in un mondo che la piccola Scout fa fatica a comprendere: l’America degli anni Trenta e la storia triste e vera che racconta quello scritto, che portò alla scrittrice un premio Pulitzer (Vedi il mio pARTicolare: Harper Lee e Ruby Bridges Nell).

“Il tenero piccolo bebé bianco tra le braccia della bambinaia nera, tutti e due sconcertati felici, ne dovrebbero mettere la gigantografia per le strade di little rock, per far vedere l’amore sotto il cielo e nel grembo del nostro universo, nella Madre terra.”
Così, dice, Jack Kerouac.

Con la sua voce che risuona nelle ossa e nel tempo. Me lo immagino, mentre fuma e beve, e scrive. Scrive ad una lampada accesa nel buio profondo.
Senza virgole senza punti. Senza questioni. I respiri rubati al tempo e all’immaginazione, la rabbia e la fatica, la fretta e il desiderio di bruciare e bruciarsi di passione e conoscenza. Di dolore, anche, purché vero.
Dà nomi ai personaggi di Frank, li immagina parlare, vivere e morire. Li immagina diventare reali, come in un film. Come nella vita vera.
Su quella strada che corre, scorre, giudica e si contorce.
Su quella strada di vita Americana, che lui a parole, e Frank in immagini, hanno saputo così profondamente e intimamente raccontare.

Alla prossima! 🙂

Fede

Grazie a Giustina Pagliussa per questi scatti durante il percorso! 

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Una selezione delle opere di cui ho parlato  fatta da Anna Rossi. Grazie!

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Robert Frank, The Americans, 1958 

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Robert Frank, The Americans, 1958 

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Robert Frank, The Americans, 1958 

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Robert Frank, The Americans, 1958 

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Robert Frank, The Americans, 1958 

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Robert Frank, The Americans, 1958 

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Robert Frank, The Americans, 1958 

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Robert Frank, The Americans, 1958 

Alla fine della mostra sono andata con parte del gruppo al Bistrot Meravigli per un pranzo insieme. Grazie ai camerieri gentilissimi e al servizio impeccabile!

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A pranzo insieme al Bistrot Meravigli in via Meravigli, 3 

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A pranzo insieme al Bistrot Meravigli in via Meravigli, 3  

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